King Lear. La parola come inganno ed il dramma della marginalità. Prima parte

Articolo di: 
Livia Bidoli
William Dyce

La tragedia di King Lear (1605) fa parte della Terza Fase del canone shakespeariano, ritenuta tra le opere il cui valore, sottolineano i critici, è di particolare rilevanza nella produzione del Bardo. Il nostro approfondimento viene pubblicato in relazione al concerto diretto da Abbado a Santa Cecilia con musiche di Dmitrij Šostakovič come colonna sonora dell'omonimo film di Kozincev.

 “Thou, Nature, art my goddess; to thy law. My services are bound. Wherefore should I stand in the plague of custom, and permit the curiosity of nations to deprive me, for that I am some twelve or fourteen moon- shines lag of a brother? Why bastard? Wherefore base? When my dimensions are as well compact, my mind as generous, and my shape as true, as honest madam's issue? Why brand they us with base? with baseness? bastardy? base, base? Who in the lusty stealth of nature take more composition and fierce quality than doth, within a dull, stale, tired bed, go to the creating a whole tribe of fops, got 'tween asleep and wake? well then, legitimate Edgar, I must have your land: our father's love is to the bastard Edmund as to the legitimate. Fine word, 'legitimate!' Well, my legitimate, if this letter speed, and my invention thrive, Edmund the base shall top the legitimate:—I grow, I prosper; now, gods, stand up for bastards!” (1)

Nelle parole che Edmund proferisce, appellandosi alla natura come diretta legislatrice del mondo degli uomini negando l’ordine sociale che lo condanna alla discriminazione, si legge una profezia che sottende tutto il nucleo del dramma di King Lear (1605). Inoltre, essendo il plot ed il subplot direttamente intrecciati e facenti capo alla medesima selezione, che si attua seguendo la linea ereditaria di successione “legittima”, si può parlare di vere e proprie premonizioni che la voce di Edmund si incarica di lanciare sul piano drammatico.  

L’intento di Edmund, figlio illegittimo di Gloucester, è la rivalutazione di sé stesso all’interno di un sistema segnico e gerarchico che lo esclude in quanto emarginato sul piano dell’illecita relazione paterna da cui è nato, come confermano le parole del padre naturale all’inizio del dramma (rivolto a Kent): ”His breeding, sir, hath been at my charge: I have so often blushed to acknowledge him, that now I am brazed to it.” (2) E riafferma, quando presenta la madre e le si riferisce nel modo seguente: “this young fellow's mother could; whereupon she grew round-wombed, and had, indeed, sir, a son for her cradle ere she had a husband for her bed. Do you smell a fault?” (3) Se ne deduce subito come Edmund possa soffrire di questa estraneità ad un ordine sociale stabilito e accolto da tutti i personaggi della tragedia. Un ordine che condanna chiunque gli contravviene: ecco perché Gloucester si pone subito al riparo da qualsiasi accusa: “a son for her cradle ere husband in her bed” (4). Il primo fra tutti che contravviene a quest’ordine, di cui è il massimo rappresentante, è King Lear stesso. L’espulsione, l’espropriazione, sebbene volontarie attraverso la spartizione del proprio regno, la follia, la questua e la perdita con esse della propria identità di re ne saranno la diretta conseguenza, nel momento stesso della suddivisione del regno fra le tre sorelle. La decisione di Lear di misurare l’affetto delle figlie “materialmente”, ovvero per mezzo di attestazioni d’affetto per guadagnarsi una porzione di regno dà l’avvio al dramma: i sistemi dell’affetto e quello gerarchico sono infatti su due piani fortemente diversi e non conciliabili, come mostreremo subito.

La proprietà del regno da cui derivano il potere e l’autorità (quella che Lear ingenuamente vorrebbe ancora conservare per sé) sono inseparabili; di conseguenza  la spoliazione dell’uno afferma quella degli altri due, come giustamente dice Goneril: ”Idle old man, that still would manage those authorities that he hath given away!” (5) Alessandro Serpieri in “Il crollo della gerarchia medievale in King Lear” (6) asserisce in proposito: “Gloucester, come farà poi Lear, confonde il piano affettivo […] con quello gerarchico,” (7) e spiega come sia “l’illusione di un re che vuol rimanere tale proprio quando si accinge a non esserlo più.” (8) Gloucester infatti nega la discriminazione che invece esiste” (9) tra  il figlio legittimo Edgar e il bastardo Edmund, che è costretto “a tornare all’estero malgrado l’affetto che gli porta Gloucester.” (10) 

Gloucester e Lear sono “ciechi” entrambi nei confronti dei loro figli, non riescono a decifrare la verità che sottende i loro propositi, vengono ambedue ingannati dalle apparenze, dall’adulazione, dal tranello, che viene sciorinato attraverso la parola, cui loro stessi avocano il potere di legiferare. Alla presenza della parola di Regan, Gonerill, Edmund, si contrappone la sua assenza (11), quel nothing che ricorre per tutto il dramma, metafora della “negazione del sistema.”(12) Il rifiuto di un’ottica comparativa intrinseca al potere e all’ascesa sulla scala gerarchica, viene temuta e rifiutata proprio da coloro che hanno innescato il processo di auto-annichilimento progressivo grazie al peso conferito alla parola.   

Continua nella Seconda parte in GN5 5 dicembre 2011

Pubblicato in: 
GN4 28 novembre 2011
Scheda
Titolo completo: 

Note

  1.     William Shakespeare, King Lear (G.K.Hunter and T.J. B. Spencer Ed.), Penguin, London, 1999, p. 72.
  2.     Ibid, p. 61.
  3.     Ibid.
  4.     Ibid.
  5.     Ibid, p. 78.
  6.     "The Breakdown of Medieval Hierarchy in King Lear", in J. Drakakis (a cura di), Shakespearean Tragedy, Longman, London, pp. 84-95, 1992.
  7.     Cfr. op. cit. King Lear, p.134.
  8.     Ibid, p. 136.
  9.     Ibid, p. 134.
  10.     Ibid, p. 135.
  11.     Cfr. Lear che ingiunge a Cordelia imperiosamente di parlare: “Speak!”, op. cit., p. 64. Credendo Lear di poter comandare alla parola, in questo caso all’affetto di Cordelia di potersi tradurre in significante.
  12.     A. Serpieri, op. cit., p. 139.